Parliamoci chiaro.
Oggi ho fatto un post per presentare le novità del sito Monkey. Sono momenti in cui ti fermi un attimo a pensare, non fosse altro che per parlarne in modo decente (che è il vero senso di avere un blog dice Seth Godin, ma è un altro film).
In questo anno e mezzo è successo di tutto (e continua)… ma io sono nato e cresciuto con la pubblicità.
Sono un copywriter. Il mutuo lo pago scrivendo. E a scrivere mi hanno insegnato Fulvio Nardi (l’unico pubblicitario meno noto delle sue campagne, cito alla rinfusa: oui je suis catherine deneuve, fatto-già fatto? silenzio parla agnesi), Emanuele Pirella, Michele Goettsche. Anni 1986-1996.
Scrivere bene (possiamo anche sostituire la parola scrivere con la parola comunicare) è un mestiere duro, una tirannia. Niente ti piace mai, sei già in esecutivo e ti accorgi che forse c’è un titolo migliore. Allora bestemmi, imprechi, ma intanto chiami il cliente per dirglielo, e intanto la scadenza per la consegna del file passa. Poi ci sono gli auguri di Natale, i clienti vogliono anche quello, e li vogliono orginali. E tu ridi, ironizzi, ci scherzi. E intanto ti caghi sotto, perché sai benissimo che in quel momento sei giudicato per quello che ti inventi, punto, e se quello che ti devi inventare è un modo nuovo di dire Buon Natale e Felice Anno Nuovo, quello sei. Anche se hai un leone d’oro che ti guarda dalla libreria (e non è il mio caso). E non vai a casa volentieri se non l’hai trovato. E non dormi bene. Questo mi hanno insegnato, questo faccio. Questo vendo.
Scrivere. La sensibilità al comunicare si acquista pian piano. Scrivere di tutto. Scrivere sempre, anche quando non scrivi. Un post su un blog come uno spot internazionale. Una presentazione, una mail delicata, una campagna radio una convention un cartoon. Come il primo giorno, con ancora più paura di non farcela, e con la infida e crescente sicurezza del mestiere, la peggior minaccia di ogni autore decente.
Monkey Business, that is.